Il 20 aprile esce il mio primo (e forse ultimo) libro. Si intitola “Piccoli esorcismi tra amici” ed è edito da Habanero/Erga editore.
Ecco uno stralcio del comunicato redatto da Unomundo, il mio ufficio stampa:
“…Queste pagine che coniugano disincanto e tenerezza, lucidità e candore, ironia e delicatezza. La musica, i figli, gli amori, il dolore: sono storie personali, queste, sì, autobiografiche ma allo stesso tempo universali. Brevi istantanee di vita vissuta in cui è ora divertente, ora commovente, ora impossibile non giocare a ritrovarsi e riconoscersi”.
Chi volesse acquistare una copia on line può farlo tramite il sito di Erga da QUI
Ecco il booktrailer, a cura del mio amico Srecko Fanfaric
Ecco invece uno stralcio del libro, in anteprima:
I batteristi hanno tutti lo stesso problema.
Quando suonano in un gruppo (parlo dell’ essere membri effettivi di una band non turnisti prezzolati al servizio del gattopanceri di turno) è molto ma molto raro che adoperino il loro strumento in reale funzione dei brani a cui, almeno teoricamente, stanno lavorando insieme a quei martiri dei loro colleghi.
I batteristi sono iperconcentrati su tamburi e piatti e viag¬giano a centosettanta allora su corsie d’emergenza incuranti dell’ atmosfera che mi sto sbattendo per creare e del fatto che la mia pazienza ha tutto tranne le maniche larghe.
Porca di quella troia infame e balorda.
Tengo duro spinto da una fede incrollabile nel soprannatu¬rale, speranzoso che possa avvenire il miracolo, ossia che quei maledetti improvvisamente si ravvedano, decidano di mettere da parte l’amore incondizionato per l’ onanismo e inizino finalmente a farlo, l’amore, concedendosi un po’ sen¬za pretendere sempre e comunque l’appagamento personale.
Più sono dotati tecnicamente più risultano difficili, se non impossibili, da gestire, da contenere.
Ne parlo con uno spossato Gigi davanti a due Weiss medie appena dopo l’ennesima delirante sessione in sala prove alle prese con i pezzi del disco nuovo.
Poi improvvisamente realizzo alcune cose.
Prendiamo Stewart Copeland.
Coi Police era un mostro, un genio assoluto del drumming. Quando però c’era da andare dritti e ignoranti, quando occor¬reva soltanto spaccare i culi non mi risulta si facesse troppi problemi di sorta. I casi sono due: O Sting sapeva persuader¬lo con ricatti, minacce e violenze varie o era il buon vecchio Stewart a essere, oltre che un sublime batterista, anche un enorme musicista.
C’è poco da fare: le aspre battaglie coi batteristi hanno oc¬cupato e occuperanno una significativa porzione della mia permanenza sul pianeta terra.
Sarà che il mio background è sostanzialmente pop rock ma per me un batterista, se è contemplato nei piani di una band, deve soprattutto tenere in piedi le canzoni, deve capirle, comprendere cosa è meglio fare, come è meglio farlo, addi¬rittura se è il caso di fare qualcosa.
Una strabiliante assenza su tre quarti di un brano presenzian¬do poi anche solo per una trentina di secondi con un quattro quarti potente e preciso dopo essere entrati addirittura senza fill può essere folgorante, epocale.
Vallo a spiegare a quel santo ragazzo di Ado, di sicuro il più dotato tecnicamente di noi tutti e cinque messi insieme.
Ieri al mio tutto sommato comprensibile suggerimento di cimentarsi in un banalissimo ma efficace tumpatumpa pic¬chiando soltanto su timpano e rullante ha sfoderato menate inaccettabili del tipo sta roba del cazzo me l’hai fatta già fare su quell’altro pezzo dello scorso ep.
Allucinante.
Raccogliere i maroni da terra è stata impresa notevole.
Ottimo batterista Ado.
La sua spasmodica ricerca della chicca, del preziosismo a tutti i costi mette tuttavia le mani nel sangue.
O magari è un problema mio che sono sempliciotto. Sarà che da sempre mi sta soprattutto a cuore che le canzoni siano buone nella loro globalità, che funzionino, che arrivino.
Se per raggiungere questo obiettivo mi basta suonare due note due dall’inizio alla fine del pezzo lo faccio molto tran¬quillamente. Che problema c’è?
Non disdegno accordi dissonanti, passaggi armonici ostici, tempi dispari, ci mancherebbe altro.
Li uso tuttavia solo dove la canzone in qualche modo li ri¬chiede, mai per sterile vezzo o per dimostrare chissà quale eclettismo.
Parlando con Ado mi è uscito un bell’esempio. Gli ho parlato di “Blister in the sun”.
Avrei potuto citare decine di altre canzoni ma ho scelto quel¬la perché avevamo appena finito di provarne una mia, scritta sotto l’evidente influenza dei grandi Violent femmes.
In quel pezzo meraviglioso la parte di batteria è tanto tira¬ta quanto elementare. Nelle strofe, alla fine di ogni verso e appena prima dei ritornelli, c’è uno stacco a dir poco basico. Quattro frustate sul rullante, secche e bastarde.
Tata! tata!.
Questa ignorante robaccia contribuisce a caratterizzare enor¬memente quel brano. È un fatto oggettivo, incontrovertibile. Non solo lo impreziosisce ma, nella sua disarmante banalità, lo rende un capolavoro.
Quei quattro stupidi colpi sul rullante sono puro genio.
Volete provare a spiegarlo a quello là? Io temo di non farcela. Sono un po’ demotivato e molto ma molto stanco.